Premiazione del concorso letterario Todaro-Faranda 2012.
Ha avuto luogo a Bologna sabato 29 settembre, presso la Sala Assemblee della Fondazione Carisbo, la cerimonia di premiazione della quattordicesima edizione del Concorso “Premi biennali di narrativa italiana inedita Arcangela Todaro-Faranda”.
Erano presenti i tre componenti la Commissione giudicatrice, il prof. Emilio Pasquini, presidente della Commissione, lo scrittore dott. Nerino Rossi e il critico letterario dott. Raffaele Nigro, oltre ad un folto pubblico.
Dopo il saluto dell’on. Virginiangelo Marabini, che rappresentava la Fondazione, il prof. Pasquini ha letto la relazione della Commissione giudicatrice, cui sono seguiti gli interventi a commento del dott. Rossi e del dott. Nigro.
Sono stati quindi proclamati i due vincitori ai quali sono stati consegnati il loro volumetto edito dalla Bup, il volume degli scritti della prof.ssa Arcangela Todaro Faranda ed una busta concernente l’accredito della somma in denaro prevista nel bando, € 1.000 per i racconti ed € 2.000 per il romanzo.
Per la Sezione Romanzo ha ricevuto il premio la signora
Silvana Perotti, torinese di nascita e piemontese di radici, residente a Napoli da quarant’anni, con il volume Antonia (ogni giorno a massa prima).
Per la Sezione Racconto è stato premiato
Andrea Ancona, nato a Castelvetrano (Trapani) e residente a Montevago (AG), che ha presentato la raccolta di otto racconti dal titolo Monogramma rosso sangue.
I due nominativi sono stati selezionati fra i 277 partecipanti al concorso (nella precedente edizione erano stati 110).
Al termine della cerimonia ha fatto seguito un buffet che ha consentito agli intervenuti di complimentarsi con i vincitori e di intrattenersi con i membri della giuria. A tutti è stata poi consegnata una copia dei due volumetti vincitori e della relazione a stampa della giuria.
Premio Todaro-Faranda 2012
Relazione della Commissione giudicatrice
Non sembra proprio che fra i settori in crisi della produttività nazionale si debba annoverare la scrittura creativa, almeno a giudicare dal numero dei concorrenti all’edizione 2012 del Premio biennale Todaro Faranda per la narrativa italiana inedita: ben 120 romanzi e 157 raccolte di racconti, di qualità assai disuguale, spesso modesta, ma con un manipolo di testi di indubbio valore, anche se di prevalente impianto tradizionale (di qui la rosa finale di 7 romanzi e di 7 sillogi di racconti). Un numero così elevato, rispetto agli anni precedenti, si spiega anche con l’inserimento del bando su internet, che ha permesso una maggiore diffusione non solo nazionale: ne è uno specchio fedele la provenienza dei lavori, che vede rappresentate tutte le regioni italiane: in testa, ovviamente, l’Emilia-Romagna (con 81 testi, il 29% del totale); seguono la Lombardia (47), il Veneto (23), la Toscana (20), il Piemonte (19), poi tutte le altre (3 infine vengono da fuorivia).
Sette i romanzi prescelti dopo la pre-selezione di rito: in ordine alfabetico, Quando il passato ritorna di Maria Falchi, Le rondini ritornano di Elena Monti, La chiave di cristallo di Antonio Mosca, Antonia (ogni giorno a messa prima) di Silvana Perotti, Il ponte di Rita Piccitto, Come le onde di Leo Wolf, Un’altra partita di Silvia Zucchini. Un confronto serrato ha messo in luce, rispetto agli altri cinque, certi limiti dei romanzi della Falchi e della Zucchini. Quando il passato ritorna è un giallo condotto con abilità, anche stilistica, nonostante l’età giovanile dell’autrice, ventisettenne, ma con troppe concessioni alla topica del genere poliziesco, ivi compreso il lieto fine (resta tuttavia nella memoria la figura della protagonista, il commissario Maria Dell’Orto, capace di intuire, anche per una sua dolorosa esperienza personale, come dietro un apparente suicidio si celasse un feroce assassinio). A sua volta, Un’altra partita è un libro commovente, in presa diretta, che registra in forma di diario le confessioni di una diciottenne sportiva (brava giocatrice di pallavolo), la quale lotta disperatamente con un tumore, affrontando con coraggio tutte le cure obbligate: manca però il distacco necessario perché si possa parlare di un’opera letteraria, e il linguaggio è quello della conversazione più disinvolta fra i giovani d’oggi.
Di vario pregio gli altri cinque lavori, a cominciare da Le rondini ritornano della Monti, accompagnato da una breve sinossi a cura della stessa autrice: la protagonista Giada, inconsolabile per la morte dell’amatissimo padre, cade nelle spire della bulimia; ma il trauma affettivo è l’occasione per ripercorrere in modo coinvolgente tutta la storia della famiglia, in una sorta di saga tutta giocata sull’asse della memoria (e molto giova a questo recupero l’incrocio frequente fra due dialetti, il napoletano e il piemontese). Del tutto diverso l’impianto de La chiave di cristallo che l’autore, Antonio Mosca, accompagna con un’ampia sinossi: si tratta di una storia alchemica o esoterica, strutturata in forma amebea, con la vicenda secentesca che si alterna in parallelo alla contemporanea (un procedimento che s’interrompe alla fine, suggellandosi un po’ frettolosamente nella dimensione antica); notevole la documentazione, con golosità da bibliomane (un po’ alla Umberto Eco, ma qui i personaggi si chiamano Bernini e Cristina di Svezia) entro un orizzonte di giallo fantascientifico che può ricordare Fredric Brown e Carlos Ruiz Zafon. Romanzo breve, Antonia della Perotti, ma di pieno equilibrio e di rara omogeneità, incentrato sulla figura della protagonista che dà il titolo, la cui esistenza si consuma quasi tutta nelle Langhe, anche se ha avuto l’occasione di cambiare vita, adottata a Torino da una famiglia benestante (ma alla morte della madre è dovuta rientrare nella casa paterna, a governare l’intera famiglia): una povera figlia di contadini assurta per i suoi meriti alla stima generale dei conterranei (il romanzo si apre appunto col funerale solenne di lei, partecipe tutto il paese). Quanto al romanzo della Piccitto, Il ponte, è la storia di un giovane siciliano, Nele, che riesce ad evadere dalla cerchia familiare (una bella famiglia di tipografi), grazie alla sensibilità della zia Giulia, che ha sostituito la madre, morta prematuramente, favorendo la crescita morale e intellettuale del nipote, consentendogli di intraprendere gli studi universitari a Torino e di laurearsi in Ingegneria (l’approdo dei suoi studi sarà appunto la costruzione di un ponte nella sua isola: di qui il titolo del romanzo): pregevoli certi affondi psicologici (che chiamano in causa altri personaggi, come il suo referente piemontese, il dottor Mariani, misteriosamente legato a Giulia); pregevoli certe descrizioni di paesaggi e certe finezze linguistiche (dialettali, ma anche l’ircocervo bisinissi, che fa venire in mente il Pascoli di Italy). Infine, Come le onde, di Leo Wolf, dove (a parte il titolo shakespiriano e l’espediente iniziale del ritrovamento del diario del nonno Rudolf, in un archivio dimenticato) la prima guerra mondiale è rivissuta emotivamente dalla parte del mondo austro-ungarico. La grande storia (si leggano le belle pagine dedicate alla morte del Kaiser Francesco Giuseppe, la fine del Sacro Romano Impero) si mescola con la microstoria di una famiglia altoatesina, protagonista il colonnello Rudolf, affiancato però da comprimari tutt’altro che esangui (a partire dalla moglie boema Herma e dal fedele attendente Franz Stolz); un abile gioco di incastri dominato da un linguaggio che solo a volte si compiace di qualche fronzolo lezioso. Non facile la scelta fra questi cinque romanzi, tutti di buon livello; ma alla fine la Commissione si è trovata d’accordo per assegnare il premio ad Antonia della Perotti, proprio per le virtù dello stile (penso alle pagine dove si scoprono i rumori della città, così diversi dai suoni campestri o allo stupendo dialogo in piemontese con la madre morente), ma soprattutto per la strenua capacità di sintesi (così nella scena dell’incendio della casa con la fuga della ragazza violentata dal brutale marito di Antonia: in questi ventiquattro brevi capitoli non c’è una parola di troppo, come in un certo Pavese (quello di Paesi tuoi).
Quanto ai racconti, la pre-selezione ha privilegiato le seguenti sillogi, in ordine alfabetico: Monogramma rosso sangue di Andrea Ancona, Il caffè cambia il colore dell’acqua di Silvana Aurilia, Una metropoli, cento strade di Paolo Delpino, Da troppo lontano di Pietro. Lorenzo e Chiara Galliani, Racconti obliti di Licia Gualandi, Strane storie di Michele Piccolino e Storie d’infanzia di Gian Luigi Zucchini. Anche qui l’esame comparativo ha consentito alla Commissione di scremare ulteriormente la rosa: più deboli sono subito apparse le sillogi di Piccolino e Zucchini, anche se possono vantare certi meriti. Le quattro Storie d’infanzia si sviluppano infatti nel segno della tenerezza, con le prime scoperte della vita e i sentimenti aurorali colti nella loro delicatezza (specie in Una stagione troppo breve), ma talvolta sembrano perdersi in tonalità un po’ scontate o in riempitivi esuberanti; i cinque racconti che compongono le Strane storie (sulle lapidi dei bambini travolti da auto, su una madre che disereda i figli ingrati, sul ciondolo finito nel Piave dopo la sciagura del Vajont, sullo specialista pagato per concioni funebri di tre minuti, sul business di chi riga le carrozzerie delle macchine) troppo spesso indulgono a sciattezze frettolose di sapore giornalistico. Quasi sullo stesso piano e a un livello più alto sembrerebbero invece collocarsi le altre cinque raccolte. A parte il titolo discutibile, i nove racconti della Gualandi rivelano un notevole magistero di scrittura e un uso sapiente, a volte ironico del dialetto (nella fattispecie l’umbro nella sua variante ternana): non si tratta peraltro di narrazioni autonome, in quanto essi costituiscono una sorta di saga, un po’ esuberante, ove si ripercorre la storia di una famiglia nel secolo breve, una generazione dopo l’altra, con preminente rilievo dei personaggi femminili, a partire dai primi anni del Novecento. Addirittura tre gli autori che hanno dato vita alla serie intitolata Da troppo lontano (con sottotitolo Storie di ordinaria trascendenza): racconti «a 6 mani, cresciuti attraverso mail in giro per l’Europa, tra una madre e due dei suoi figli», una giuslavorista, un dottore di ricerca in Logica Matematica e un giornalista laureato in Scienze politiche. I tre co-autori tentano la strada dell’originalità anche quando riprendono temi per così dire archetipici, tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento (Caino e Abele nel racconto iniziale, Fratelli; e poi la torre di Babele, la figlia di Jeffe, Lazzaro, il figliol prodigo, la Samaritana, fino ai discepoli di Emmaus e al Discorso della Montagna), rivisitati con finezza espressiva, varie tonalità, ora drammatiche ora umoristiche, ma anche cadute gergali di una bolognesità un po’ troppo disinvolta quando non volgare. Di tutt’altro genere, quasi su un versante opposto, Una metropoli, cento strade di Delpino: sono quattro racconti di piglio originale, ambientati in una controfigura surreale o fantascientifica della Milano odierna, dove trionfa il linguaggio mercificato della società dei consumi maneggiato con una perizia non scevra di ironia, specie in certi spunti polemici contro i mass-media e le ipocrisie della politica, ma spesso inutilmente spiritosa. Presentando invece la propria silloge, l’autrice stessa, Silvana Aurilia, definisce i dieci racconti che compongono Il caffè cambia il colore dell’acqua come «narrazione del sé, del difficile compito di essere al mondo» in un «linguaggio semplice […] tra il monologo e il flusso di coscienza»: belle intenzioni che non sempre si traducono in esiti adeguati, nonostante l’alternanza del testo normale con i corsivi dello stream of consciousness. Segnaliamo fra i risultati più probanti il monologo interiore del mongoloide (Il compleanno) e quello dell’ Uomo senza qualità, oppure il bel racconto a più voci (Dieci chicchi di caffè) sul tragico ritorno di un reduce, fucilato dai tedeschi alle porte di casa.
Possono invece richiamarsi alla struttura dei Racconti obliti della Gualandi gli otto segmenti che compongono il Monogramma rosso sangue di Ancona, in quanto risultano (anche per esplicita dichiarazione dell’autore) «tutti legati alla vita del personaggio inventato, il professor Giovanni Mazzara», detto Gio’, e costituiscono quindi i potenziali capitoli di un potenziale romanzo. Ma è da dire che in questo caso l’ambiente siciliano è reso efficacemente anche nei suoi tratti archetipici («dove tutto è mafia, nulla più è mafia»), oltre che nei singoli comprimari (il ragionier Messano, il cognato Scaminaci, la moglie e l’amante del protagonista, il cugino Vito) e nell’intreccio ben congegnato, che trascina a un certo punto Mazzara in carcere, per quanto innocente (incombeva però il ricordo di suo padre, uno dei boss dell’isola), e poi farsi ignaro strumento di mafiosi (di qui il suo finire ammazzato, nonostante che per tutta la vita avesse fatto il possibile per restare fuori da quel feroce circuito). Sono pregi che hanno indotto la Commissione ad assegnare il premio al Monogramma rosso sangue.